La prima parola che pronunciò da bambino fu “Mannaia”, suscitando lacrime di gioia nella madre, la cui stirpe suggeriva una genealogia di criminali, boia e guerrieri irsuti. Ma le parole che seguirono furono “Carbonara”, “Raviolo”, “Fegatello” e il padre non capiva come l’arte culinaria, un interesse così lontano dagli affari di famiglia, stesse nascendo nel cuore del ragazzo.
Preoccupati per l’indole poco aggressiva di Lautaro, i genitori lo affidarono alle cure di Papanbawe, uno fra i più spietati pirati somali dell’epoca contemporanea. Era il capitano del Kruvsciott, una nave mercantile che dissimulava attività di pirateria, eseguita con piccole e veloci barche invisibili ai radar e satelliti che usavano il vascello come base. Alto e tisico, il piccolo Forca fu schernito sin da subito dalla ciurma, ma alla prima schermaglia seria rese monchi due pirati con un machete e tagliò la lingua al terzo per una “tenera” offesa. Allontanato dalle scorribande marinaresche fu confinato per un certo periodo nelle cucine, l’unico posto che lo rendeva placido e ammorbidiva il suo carattere schivo e silenzioso. Nel giro di dieci anni divenne il braccio destro di Papanbawe che non poteva più fare a meno della sua arte culinaria e trasformò il mercantile in una nave ristorante.
In una missione nell’entroterra, Lautaro si innamorò di Babanta, una rwandese di stirpe tutsi. Gli anni passarono felicemente tra l’attività di pirateria, la sperimentazione culinaria e le fughe d’amore consumate all’ombra della flora africana.
Un giorno, Adalberto Sangue si recò in missione sulla Kruvsciott con il fidato aiutante, Settimio Pollio, per un’indagine su tonnellate di tonno depredato dalle navi appartenenti alla Yellow Fins. Nella sala ristorante, mentre il detective indagava, la voracità del piccolo Settimio diede subito un gran da fare a Forca che imbracciò agguerrito la sfida. Dopo settanta primi, centoquarantasei secondi e tredici teglie di tiramisù il cuoco l’aveva preso in simpatia. A fine servizio si mise a sedere al tavolo con lui e chiacchierano per ore di cibi d’elite, scolando rum come veri pirati.
Proprio in quel periodo aveva luogo una sanguinosa guerra fra hutu e tutsi: la persecuzione di quest’ultimi portò irrimediabilmente all’uccisione di Babanta. Preso da furia omicida, Forca uccise con la mannaia da cucina gran parte dei coloni belgi che avevano creato disparità di classe irreversibili dando origine al conflitto. Quando si riprese il sangue gli colava dagli arti superiori e una massa indistinguibile di cadaveri copriva la fitta vegetazione. I superstiti lo accerchiarono con armi da fuoco, determinati alla vendetta. Ma il piccolo Settimio Pollio aveva seguito il grande cuoco per paura di perdere un amico da ‘si grandi abilità culinarie e quando vide la scena la sua portentosa chioma afferrò tutti i fucili e i suoi canini divennero zanne: in pochi minuti i nemici furono sterminati. Nel frattempo Forca era in ginocchio, distrutto dalla disperazione e perso in uno stato catatonico. Pollio fece di tutto per portarlo alla cucina più vicina ma ormai il cuoco non riusciva più a tenere una padella in mano. Dopo mesi di tentativi, il nano rockabilly abbandonò la causa e disse a Sangue che era ora di tornare in patria. A distanza di qualche ora, una mano toccò la spalla di Lautaro Forca, l’altra gli porse un attrezzo familiare e una voce suadente disse “Sono giunto sin qui dall’Italia, spinto dalla fama delle tue arti culinarie: da oggi userai questa mannaia solo per preparare raffinatezze, ti assumo nelle cucine del mio castello”. Era Fulvio Seta. Forca non rispose subito, ma quella voce riuscì a penetrare dentro la roccaforte di insensibilità del pirata e dopo una settimana salutò Papanbawe e partì verso lo Stivale. Da quel giorno prepara succulenti piatti grazie alle ricette rubate da Seta ed il primo ad assaggiarle è Settimio Pollio, come ricompensa per avergli salvato la vita.